sabato 23 febbraio 2019

SÒCCIA!


  
SÒCCIA!

Maragli all’orizzonte

Romanzo di disin/formazione bulagnese,
degenerato in sano ecoterrorismo

Edizioni Rossoblù




  
Agli amici che sono partiti per altre galassie anzitempo,
Stefano e Claudio


I personaggi e i fatti descritti sono un rutto della fantasia. Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale. Forse.


GRAZIE mille volte mille all’amico Gino Goya per l’impagabile supporto tecnico (trasformare questo testo da file Word in carta dell’Amazonia): se potete leggere quanto segue lo dovete anche a Lui.
   
La foto di copertina - autore Nicola Boi© - proviene dalla testata del master di giornalismo MaGiBo dell’Università di Bologna: correda il bell’articolo di Giorgia Porliod “Le tante facce del tortellino” (18 ottobre 2017) e si riferisce a un piatto spettacolare dello chef Pietro Montanari, in passato servito al Ristorante Cesoia: Bologna la rossa…dal sangue blu”. Il piatto nasce per l’edizione 2016 di “Tour-tlen”, il festival del tortellino che a San Petronio anima piazza Re Enzo. La sfoglia richiama i colori del Bologna, dato che il ristorante sorge nel luogo che una volta ospitava il campo della squadra di calcio. Il ripieno è quello tradizionale ma viene diviso in due parti. Il rosso viene ricreato utilizzando del concentrato di pomodoro prodotto dal ristorante, il blu dalla fermentazione del cavolo cappuccio con aggiunta di clorofilla e nero di seppia. Il ripieno blu è di pollanca allo stato brado, mortadella e mascarpone. Il ripieno rosso è di prosciutto, lombo di maiale, timo e parmigiano. I tortellini sono cucinati in un brodo di pollanca e doppione di manzo. A fine cottura vengono saltati con burro e parmigiano (così non perdono il colore). Mangiarne uno blu e uno rosso aiuta il palato a ricostruire il sapore del tortellino tradizionale.
GRAZIE infinite per avermi concesso di usare la vostra immagine.



Lettera di auto-accettazione
(Prefazione)

  Sòccia! è il frutto di un parto cesareo. Scritto quasi vent’anni fa, maneggiato a più riprese, nacque sull’onda de L’isterico a metano. Infuocatomi dopo che quest’ultimo era stato acquisito nientepopodimeno che dal Sig. Mondadori quasi in persona, partii in quarta con un’altra avventura di ambientazione emiliano-globale. Il sommo editor lo bocciò dopo averlo frettolosamente inquadrato come un tentativo di sequel dell’Isterico (il sommo editor era quotidianamente stalkerato da aspiranti scrittori con il libro nel cazzetto che lo sommergevano di manoscritti non richiesti), sbagliando di brutto l’etichettatura. Nel suo rifiuto centrò una sola cosa: Sòccia! tratta(va)si di romanzo di formazione, Bildungsroman in lingua tognina. L’editor, in realtà, centrò anche un’altra cosa: il suo diritto sindacale di odiare i romanzi di formazione: così come i film dell’horror, i gelati al puffo e i tronisti non sono oggettini per tutti gli stomaci.





  Quella fu la prima bocciatura di una collezione. Seguirono quelle su carta, qui riportate, oltre ai silenzi eloquenti di editori che non avevano tempo né soldi da sprecare in carta, inchiostro e francobolli. Aggredii l’editore giovane Minimum Fax, se ricordo bene da me accalappiato a qualche orgia libraria. Io gli appioppai il manoscritto, lui appioppò a me (anzi, a un mio alter ego, tal Piero) una dettagliata lettera di rifiuto. Tale lettera mi lasciò felice e dubbioso. Felice perché a sentire tal Marco Di Marco (un altro alter ego?) i giovani del comitato di redazione dell’editore giovane lo avevano davvero letto e poi si erano addirittura degnati di scrivere, stampare, imbustare, leccare, affrancare, spedire. Quasi un miracolo nella giungla di editori che dirottavano i manoscritti direttamente nella carta da riciclare senza nemmeno buttarci un sopracciglio sopra. Dubbioso perché le critiche mosse al libro, tollerabili come tutte le critiche e i gusti di gelato di questo mondo, facevano un’equazione a mio parere sbagliata (a scuola ero un genietto in matematica):

mia dichiarata voglia di stronzeggiare dalla prima all’ultima pagina
=
mancanza di verosimiglianza della storia

  Grazie alla cippa, avrei volto dire al caro Marco Di Marco, se nella storia dei rapporti fra aspiranti scrittori ed editor scrematori fosse mai stata concessa una contro-risposta o, almeno, un caffè assieme giù al bar. Nel libro, a mio - evidentemente solo mio - parere, qualunque lettore avrebbe dovuto notare di trovarsi fin dalla prima riga davanti a chiaro esemplare di opera cazzara, senza alcuna aspirazione di verosimiglianza, di plot da romanzo storico, di attendibilità da Piero Angela. Ovviamente la cornice del racconto (l’arresto del protagonista) era un escamotage, ‘na scusa, per infilare tante ma tante cazzate, con l’imbuto grosso da damigiana, fra la prima e l’ultima pagina. Ovviamente, nella vita vera, un padre con i peli sul petto di solito non racconta le proprie pugnette al figlio, a meno che non si tratti di padre un filo alla deriva. Oppure, come nel caso di Sòccia!, di padre assente da sempre nella vita del figlio che, da un bel/brutto dì in poi, cerca il perdono attraverso una confessione intima che più intima non si può, ai limiti del confessionale cattolico. Ti racconto quanti peli sotto le ascelle ho, così forse mi perdoni per la lunga assenza e da oggi diventiamo, se non addirittura padre-figlio, amici. Davo per scontato che il lettore medio, capito il giochino, si sarebbe concentrato sulle cazzate anziché sulla verosimiglianza. Non so a voi, ma a me pare che la vita ci butti addosso già troppe cose vere. In una lettura di intrattenimento, senza necessariamente scivolare nel reparto barzellette di Totti dei supermercati, preferisco un po’ di fantascienza urbana pazza, di cazzate alla vaga eau de verité, piuttosto della vera cronaca vera (per quella mi bastano le file in posta, il telegiornale e la gente che quotidianamente fa di tutto per distruggere il pianeta). Ammaniti e i russi che popolano le catacombe di Roma mi stanno molto più simpatici dei russi veri.



  Durante uno dei miei pellegrinaggi siculi in cui all’inizio del secondo millennio andai a trovare nonno Pietro, scappato di casa a ottantanove anni e fuggito a Sciacca, fra una cassatina buona da far lacrimare e un’arancina buona da comprarne cento, bussai alla porta dei gentili Signori Sellerio nella bella Palermo. Editori e gentiluomo/donna d’altri tempi. Era il periodo dei grandi successi di Camilleri e quei libricini piccini picciò blu, anche se apparentemente contenenti fiabe per bambini con manine piccole, spesso contenevano Grandi Figate. Per un momento sognai che Sòccia! potesse essere pubblicato da un Editore così… antico-moderno. La lettera di risposta della signora Elvira, che riposi in pace nel paradiso delle gentildonne, mi fece felice e dubbioso al tempo stesso. Felice perché, di fronte alla già citata giungla, Lei aveva letto il libro e si era addirittura presa la briga di scrivermi. Dubbioso perché le sue osservazioni erano un ossimoro nero su bianco: ‘ricco di interesse’, ma impubblicabile. Io, mente semplice, ero cresciuto ritenendo che se una cosa è ricca di interesse probabilmente troverà compratori interessati ad arricchire chi la spaccia. Ma si sa che gli omarini come me, mononeuronici, vedono tutto solo in bianco e nero, senza tutte quelle meravigliose sfumature arcobaleniche che le signore donne femmine intravedono costantemente fra i raggi gamma che tappezzano l’ozono.
  

Dopo le due prime lettere di rifiuto misi Sòccia! nel famoso cassetto, dove noi italiani conserviamo quantità mostruose di aborti da grafomane. Poi, un bel giorno, qualcuno mi disse che nel nuovo mondo parallelo, Internet, avevano iniziato a rilucere stelle giovani e promettenti: le pubblicazioni fai-da-te. Apriti cielo! Alle spalle avevo una quantità paurosa di traumi infertimi da editori di varia natura, durante circa un ventennio vissuto pericolosamente fra gentiluomini e inculatopi. L’idea di poter fare finalmente con le mie manine, come con la statuine di pongo all’asilo, mi sembrò almeno fantalisergica. Mi ci buttai a capofitto. Inciampai, se ricordo bene, sulle gambe di una tale Lulù, un primo sito di auto-pubblicazione, dove per un periodo Sòccia! pulsò. Il popolo, però, sembrò non accorgersi granché di tali pulsazioni: i tempi per i kindle erano molto acerbi, la carne su due zampe come me adorava ancora i libri strappati agli alberi, da leccare e piegarci le orecchie, tutte arcinote forme di possesso ai limiti della pornografia.


  Abbandonai Lulù e misi Sòccia! in un baule in solaio. Per anni. Anche perché, poi mi ero reso conto (con molta calma), alcuni dei protagonisti del libro potevano del tutto casualmente, lo giuro sulla testa di Trump, assomigliare a persone vere del mio passato remoto. Qualcuno avrebbe potuto riconoscerne i codici fiscali, attività molto scorretta in tempi di privacy a tutto campo.
  Poi, l’anno scorso, qualche anima giovane e pia mi ha fatto conoscere il Sig. Bezos, il proprietario dell’Amazonia. Lì mi si sono aperte le acque. Come, posso pubblicare un libro su carta polacca senza spendere alcunché? Chi lo vuole se lo compra e magari lo legge pure, chi non lo vuole lo ignora e salva un albero? Gesù, a volte, c’è. Mil besos a Bezos!, non mi importa se sfrutta schiavi per accumulare miliardi: la storia lo giustifica, i Grandi Geni si meritano un sacco di copechi, di zoccole e di GRAZIE.
  Il testo che segue, oltre a essere stato depurato da ogni forma di odiosetta verosimiglianza, è anche stato limato per non offendere più di tanto chi, del tutto casualmente, si riconoscesse in alcuni dei personaggi del libro. Oggigiorno circola un sacco di gente permalosa, e io non voglio offendere nessuno (sono notoriamente un pacifista). Se doveste mai riconoscervi in quanto segue, vi ricordo che Sòccia! parla di alieni di un altro pianeta, mentre il pianeta sul quale siamo momentaneamente ospitati è grande come uno sgabuzzino, dunque ricchissimo di coincidenze.

Okinawa, 24 gennaio 2019, ora del tè
  



Indice
  

PARTE PRIMA

Prologo

PARTE SECONDA

Primo caffè
Secondo caffè
Terzo caffè
Quarto caffè
Quinto caffè
Sesto caffè

Epilogo



VERSIONE CARTACEA



giovedì 31 gennaio 2019

UN ITALIANO A OKINAWA

Signore e Signori,
sono lieto di annunciarvi la nascita del mio secondo figlio bokkinawense.
La mamma si chiama Gino e la culla Amazon.
Questo il link alla versione Kindle:


Questo per la più pregiata versione cartacea
(tutte le mie più sentite scuse ai Sigg.ri alberi polacchi):




Questa l'introduzione (per il resto, perfa, amazonatevi):

Che cos’è questa roba  


Questo libro nasce dal blog e dalla pagina Facebook - in arte Fèssbokk - omonimi, nati nel 2012 (credo) durante qualche notte buia, tempestosa e noiosa. Allora moglie - in arte Satoko, e allora non ancora moglie - mi consigliò di raggruppare i miei post di odore turistico su Okinawa - in arte Bokkinawa - precedentemente scritti per (1) promuovere il turismo sensuale italiano nell’arcipelago più meridionale del Giappone dove per sbaglio ero finito l’anno prima e (2) magari agganciare qualche cliente compatriota da scarrozzare in giro durante le vacanze - in cambio, ovvio, di adeguato compen$o. Mi sono sempre fatto influenzare dalle mogli, soprattutto per evitare coltellate alla gola in cucina o nel sonno. Dunque, qualche tempo dopo il blog, inaugurai la pagina FB. All’inizio si trattò di un semplice copia-e-incolla dal blog, in origine un contenitore di articoli destinati alle riviste italiane di turismo, all’epoca in fase terminale. Il blog, poi, si trasformò in una raccolta di fotogiornalismo e di eventi legati alla mia personcina in terra okinawense: lezioni di cucina, feste private e festival, italianate al sub-tropico, proteste contro le basi militari americane, amore per i gatti ecc. Come tutti i blog, partì in quarta: post frequenti e ricchi di sentimento. Come tutti i blog, nel tempo perse spinta. Oggi vi pubblico qualcosa quando e solo se sono stato travolto da un evento particolare, più o meno ogni morte di papa. I tempi della promozione turistica sono tramontati da quando ho abbandonato l’idea che il sagace ente del turismo locale potesse mai investire sul mediamente colto turismo europeo (via me), anziché, come poi ha fatto, sul boscimano turismo di massa cinese.
In parallelo, ma imboccando un’autostrada molto divergente, la pagina FB ha preso un’altra piega. Lentamente si è trasformata in uno sfogatoio di piccole frustrazioni quotidiane: quelle di un gaijin, straniero, trasferitosi su Marte, a contatto quotidiano con i marziani. Ma anche in un chiaccherificio da parrucchiera, perché in fondo il gossip dà sugo alla vita, nonostante quello che ne dicano gli intellettuali nei salotti colti.Scrivere mi è sempre fisicamente piaciuto assai, almeno da quando ho smesso di farlo come obbligo a scuola. Trovandomi poi, spesso, solo e circondato da alieni, la pagina FB è stata, in questi anni, una piccola ancora di salvezza nei momenti in cui l’atmosfera rossa e priva di ossigeno di Marte mi toglieva il respiro.


Negli ultimi periodi alcuni seguaci della fèss-pagina mi hanno chiesto perché vivessi a Okinawa, se mi sta così stretta. Mi sono così trovato a dover dare spiegazioni. No, signori, Oki non mi sta stretta. Se sono finito qua, dopo un quarto di secolo di peregrinazioni fotografico-esistenziali in mezzo mondo, è anche perché ho stanato quello che, per me, è il famoso meno-peggio. Distrutto nell’animo dalle giungle precedenti in cui ho vissuto (Italia, Brasiu, New York, Goa), soprattutto grazie al rumore delle scimmie che le popolano - ho orecchie sensibilissime collegate direttamente a cervello, cuore e minchia, la mia tolleranza per gli urlatori di cazziloro ai telefoni nei treni FS è da anni sottissimo lo zero -, a Okinawa ho trovato un equilibrio fra vita produttiva (nonostante i cinquantadue anni suonati sono ancora in pista), educazione media degli indigeni (ma più passa il tempo più sto rivedendo la pratica) e pace interiore (di recente in forte pericolo di disequilibrio). Oggi non saprei quale altrove ipotizzare come piano B, per cui direi che ancora per un po’ razzolerò da queste parti, inshallah.
Il mio amore per la chiacchiera, unito all’altrettanto forte amore per le puttanate, in questi annetti mi ha fatto scrivere cosine che, come effetto collaterale, hanno avuto quello di perdere qualche amico per strada. Gente incredibilmente permalosa, ai limiti del meridionalismo più da cliché, stizzita per essere stata momentaneamente il bersaglio di mie occasionali chiacchiere pubbliche cazzare, che mi ha abbandonato come si fa con i cani negli Autogrill ad agosto. Forse, ogni tanto penso, se li ho persi così facilmente non erano poi grandissimi amici, dunque meglio averli perduti che coltivati.


Nel corso della sua evoluzione, la pagina FB è stata sotto il costante attacco dei compatrioti a caccia di piani B (lavoro, fuga dal Bel Paese, vita nuova su altri pianeti) e di informazioni turistiche. Agli inizi portavo pazienza, in quanto da bimbo ho subito addirittura la cresima. Poi, lentamente, venendo abbordato on-line da macachi impazziti, che davano per scontato che, in quanto fratello d’Italia, nel nome del santo Tricolore dovessi loro spiegazioni/informazioni/salvagente, ho alzato gli scudi. Oggi rispondo solo a quelli che prima mi spediscono triangoli di Parmigiano mai sotto il chilo; gli altri, quelli che dovrebbero passare un quinquennio in un collegio svizzero prima di essere abilitati all’utilizzo del computer, li dirotto al volo su un link scritto a loro immagine e somiglianza, titolo: ‘Okinawa, istruzioni per l’uso’ (e poi ditemi che non sono gentilissimo). Nel corso del tempo, inoltre, sono stato abbordato da psicopatici di natura assortita, bannati al volo. La vita è troppo breve per ascoltare le minoranze rompi cazzi.
Dai primi scritti su FB di Un italiano a Okinawa a oggi una cosa non è cambiata: la capacità di moglie di lavorarmi ai fianchi, di travolgermi con idee e progetti per un Futuro Migliore (?). Così, oggi al ristorante, è tornata all’attacco, mi ha fatto il lavaggio del cervelletto, e quando ho pagato il conto ho capito che, ancora una volta, aveva vinto lei. Il libro s’adda fa. E qui sta. La mia speranza: che sia godibile anche da parte di chi non mi conosce personalmente e non sia un fanatico di giapponesate. Ovviamente dovrebbe essere più comprensibile da parte di chi conosce bene il Giappone e, in particolare, Okinawa, ma spero che anche altri possano passarci qualche mezz’oretta sotto il casco della parrucchiera senza sbadigliare. Per chi è culturalmente nippo-privo, ho compilato un minuzioso glossario che troverete in appendice (e poi ditemi che non sono gentilissimo).


La struttura di questo libro è, si può dire senza rischiare di essere giudicati ineleganti, a rutti. I fèss-post, in particolare, sono rime brevi, che sanno di digestione accelerata a scartamento ridotto. Siate buoni e, soprattutto, elastici: mettete voi l’UHU, fra un ruttino e il successivo, per costruire l’unicum nascosto. Ho provato a dare un’unità al tutto, raggruppando diversi post per ‘famiglie’, anche se l’ordine cronologico con cui furono originariamente scritti è andato a farsi benedire. Da questo puzzle sono stati amputati gli scritti più noiosi, di informazione geo-turistica, così come quasi tutti i post in inglese, datati, o i link a post altrui. Alcuni post sono stati lievemente rimodellati, per (provare a) dare un senso al tutto e anche perché l’editing è un duro lavoro senza fine: non importa quanti occhi passeranno allo scanner un testo o quante volte lo rileggerai, ci sarà sempre qualche refuso lì a rompere l’anima.
Amarena Fabbri sulla torta: solo i lettori che avranno spaccato il salvadanaio per possedere questo libro riceveranno in omaggio la strenna natalizia ‘24 ore’ che conclude il testo. Scritta apposta per il libro, non è stata mai postata ed è ricca di sogni nel cassetto.


Un consiglio per la lettura: trattasi di lungo polpettone di intenso peso specifico. Masticatelo a piccoli bocconi, un po’ per volta, altrimenti rischierete di soffocare. Potrebbe essere una lettura per iniziare la giornata, un trancio e non di più, magari quando siete in seduta stampa prima di affrontare le fatiche quotidiane. Solo così, forse, riuscirete ad arrivare all’ultima pagina.
Per chiudere in bellezza, i ringraziamenti. A moglie-Satoko, per sette anni e più di lavoro ai fianchi: senza di lei la mia Okinawa non sarebbe quasi esistita, e così questo libro. All’amico Emanuello, buono-bravo-e-bello, che mi ha aiutato a partorire questo oggetto dalle cosce di mamma Amazonia senza $venarmi. E all’amico Gino Goya, da qualche anno compagno di merende bokkinawensi, bolognese come me (lui di periferia, io dei nobili colli), con molti meno peli di me ma anche con molti meno anni: senza di lui la mia vita su Marte sarebbe (stata) molto più difficile.